Adorazione dei pastori, un invito a meditare

L’ adorazione dei pastori di Giorgione data all’inizio del 1500, quando il pittore è ancora alla ricerca di un suo stile personale ma ha già intuizioni interessanti. La prima cosa da notare è la diversa posizione del Bambino rispetto alla tradizione. Gesù è appoggiato ad un panno bianco, il lenzuolo della deposizione dalla Croce oppure ad un corporale sull’altare? Sotto il suo capo un po’ di fieno fa da cuscino per sollevargli la testa, mentre sotto i suoi piedi arriva il lungo manto blu della Madonna, quasi come una cascata. L’allusione alla fonte viene ripresa a sinistra, dove Giorgione ha rappresentato appunto un fontanile che zampilla. Maria è in composta venerazione di questo figlio che ha appena dato alla luce: adora il mistero. Al suo fianco c’è Giuseppe tratteggiato secondo la tradizione come un vecchio assorto nella contemplazione. Notiamo che per sottolineare la vecchiaia, viene fatto appoggiare alla roccia, quasi non fosse in grado di reggersi. Una piccola staccionata poi lo separa da Maria, un simbolo che ricorda la verginità del parto e che enfatizza l’assenza del concorso d’uomo. Posta in maniera simmetrica c’è una coppia di pastori che rende omaggio. La raffigurazione sembra più pessimista rispetto a quanto dice Lc 2,15, dove l’impressione è che tutti i pastori si incoraggino a vicenda a recarsi da Gesù. Qui invece sembra una scelta coraggiosa intrapresa da pochi. In atto di deferenza si sono tolti il cappello, uno dei due lo ha gettato a fianco del Bambino, così ora giacciono fianco a fianco Gesù e il cappello, l’indumento più dignitoso che aveva, dato che le sue vesti, come quelle del compare, sono lacere in più punti. In sostanza è come se avesse voluto offrirgli la cosa più bella che aveva! Spostiamoci sulla destra e osserviamo nella grotta la presenza familiare dell’asino e del bue. Nella penombra si intravvedono appena, come se il pittore avesse solo voluto alludere a un elemento che non è ritenuto decisivo. Se la loro funzione era quella di scaldare il Bambino col loro fiato, ora sono decisamente troppo distanti per svolgere quel compito! È possibile che Giorgione abbia voluto indicare con la grotta buia il mondo nelle tenebre dove sono degni di restare solo gli animali. In alto una piccola figura angelica rischiara debolmente l’ambiente, ma è quasi una lampada smorta: la vera luce è rappresentata ormai da Gesù. Altri due angioletti danzano sopra le teste dei pastori e sono presumibilmente quelli che li hanno guidati fino a lì. Sullo sfondo, invece, si intravvedono altri pastori che stanno a guardia del gregge. Sono quelli che non hanno creduto all’annuncio? Uno dei due indica all’altro la casa di fronte, dove un vecchio barbuto è seduto fuori dalla porta di una casa al cui interno brucia un piccolo fuocherello. Non sappiamo cosa abbia attirato la loro attenzione, ma stanno guardando in direzione opposta alla scena della Natività. Spingendo lo sguardo ancora oltre ci inoltriamo nel paesaggio. In questa tela esso occupa una parte percentualmente rilevante della superficie e le analisi ai raggi X hanno rivelato che Giorgione ebbe diversi ripensamenti su questa parte della sua pittura. Di per sé il paesaggio rappresenta un di più rispetto al racconto dell’evento, ma qui assurge a co-protagonista perché conferisce una quieta serenità alla scena. I colori sono morbidi, una luce soffusa si dipana per tutto l’ambiente e l’alba comincia a separare l’azzurro delle montagne da quello del cielo, mentre il sole inizia a lambire i tetti delle case e quello in rovina della grossa torre. Su un piano simbolico siamo portati a pensare alla grande pace che cala sul mondo con la venuta del Salvatore. Diversi commentatori hanno osservato che in questo dipinto l’elemento meditativo prevale su quello narrativo. In questa scena siamo chiamati ad assumere la posizione di Maria che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Natale, infatti, è un evento sempre nuovo quando impariamo a esplorare la portata degli effetti che esso ha prodotto nel mondo e in noi stessi.
don Gian Luca CARREGA

Condividilo!