Verità al plurale, il medioevo insegna

Se avessimo bisogno di un’altra testimonianza utile a sfatare il cliché duro a morire di un Medioevo buio e oscurantista – qualora, per dire, Dante, Petrarca e Giotto proprio non ci bastassero -, una bella idea sarebbe quella di leggere le pagine centrali de «Sull’eternità del mondo» del maestro danese Boezio di Dacia (tra l’altro, si trova facilmente in un’ottima traduzione italiana). Siamo intorno al 1270, a Parigi, la più importante università d’Europa per la filosofia e la teologia. Il pensiero di Aristotele (384-322 a. C.) è ormai diventato, non senza difficoltà, il paradigma dominante della cultura filosofica: sono gli anni, per capirci, della grande speculazione di Tommaso d’Aquino. Però, alcuni maestri di filosofia cominciano a rivendicare la loro autonomia e professionalità rispetto ai teologi, a volte contro i teologi, e la fedeltà ad Aristotele diventa il loro vessillo polemico: li chiamiamo oggi, proprio per questo, «aristotelici radicali». Non senza difficoltà, dicevo: ad esempio, per Aristotele non c’è dubbio, il mondo naturale non ha avuto inizio né avrà fine. É eterno, è sempre stato e sempre sarà. Ma anche per i filosofie i teologi del Duecento non c’è dubbio: il primo versetto della Bibbia dice l’esatto contrario, Dio ha creato dal nulla il mondo, quindi prima della creazione il mondo non esisteva. Che fare? Chi ha ragione? La Rivelazione o la filosofia? La polemica fu rovente.

Boezio di Dacia

Ed ecco che il nostro autore danese, aristotelico radicale appunto, coglie l’occasione per dare (per darci?) in poche paginette, mi sembra, una straordinaria lezione di filosofia. Il conflitto non ha ragion d’essere perché non c’è scontro frontale e drammatico di verità contrapposte: piuttosto, ci sono piani diversi di verità che devono pacatamente dialogare. C’è una sola Verità assoluta, ed è quella della Rivelazione divina; e ci sono diverse, tante verità che l’uomo elabora, a partire da principi razionali propri di ogni ambito del sapere, traendo da quei principi conclusioni valide. Non in assoluto, però, bensì relativamente al loro ambito proprio. Tante verità che sono vere per davvero (verrebbe da dire), ma relativamente. Allora, se ogni studioso delimita correttamente il suo ambito, non si dà conflitto: semmai polifonia, dove alla linea principale si sovrappongono e sottopongono tante voci, che la completano e arricchiscono, purché non pretendano di oscurarla, perché sennò la musica diventerebbe più brutta.

Il filosofo quindi ha ottime ragioni per ritenere che il mondo sia eterno, perché ha quelle di Aristotele; il teologo ha ragioni non solo ottime, ma di assoluta verità per sapere che il mondo è stato creato da Dio. E questo non vuol dire che il lavoro del filosofo non serva a niente, anzi: esso va assolutamente fatto, perché solo una filosofia pienamente e professionalmente ferrata può farci apprezzare e cogliere davvero la Verità assoluta.

Forse, faremmo bene a rassegnarci: dobbiamo ancora imparare e reimparare (dal Medioevo!) che il pluralismo non è per forza relativismo, che davvero perché il vero sia consonante col vero (come amavano dire i filosofi del Medioevo) nella polifonia della Verità il vero non può essere uno solo; che se ascoltiamo e cerchiamo di capire, i tanti frutti dell’umano ingegno sono veramente tasselli dell’unico Vero. E, forse, faremmo bene a ricordare anche a chi non è d’accordo con noi, sommessamente, che il cristianesimo ha creato una cultura straordinaria e che oggi, mutatis mutandis, può parlare con tutti perché ha capito chiaramente di doverlo fare (anche se non sempre ci è riuscito), e già ben prima della modernità. Certo però: a volte, anche agli altri potrebbe succedere di trovarsi a dover ascoltare noi. Perché essere cristiani vuol dire, ci dice tanta parte del Medioevo (!), saper pensare, saper ascoltare e leggere con cura, saper apprezzare tutte le verità, alla luce della Verità.

Amos CORBINI

Storia della filosofia medievale Università di Torino

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