L’eccesso del perdono

Tanto è facile parlare di perdono quanto è difficile perdonare. Perdonare: perché? O addirittura: «perdonare?», dove il punto interrogativo amplifica la difficoltà espressa dal verbo.

La filosofia ha colto tale difficoltà indicando che per un verso il perdono è difficile (Ricœur), per altro verso impossibile (Derrida). Difficile (Ricœur) perché
pone una duplice questione concernente la colpa e la sua soppressione, dove la prima paralizzerebbe «la potenza di agire di quell’‘uomo capace’ che noi siamo», mentre la seconda indicherebbe come possibile la cancellazione della colpa stessa (P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio, ed. it. a cura di D. Iannotta, Raffaello Cortina editore, Milano 2000, p.649).

Questa duplicità rende il perdono «difficile» e tale perché sia darlo e riceverlo, sia concepirlo rischia di approdare alla cancellazione di una colpa difficilmente giustificabile – anzi, ingiustificabile. «Contro» il «perdonare» griderebbe perciò tanto il dolore causato da chi il male lo ha subìto, quanto il dolore che potrebbe colpire chi il male lo ha commesso. Cancellare il malfatto o subìto invece non cancellerà mai il dolore che ha provocato e l’ombra che ha gettato sull’esistenza, e proprio perché non cancella quest’ombra il perdono non soltanto è difficile ma è anche impossibile – Derrida.

Carla Canullo

Carla Canullo

La parabola che questi compie prende l’avvio dalla prossimità di dono e perdono per giungere al «perdono come l’impossibile verità dell’impossibile» (J. Derrida, Perdonare, ed. it. a cura di L. Odello, Raffaello Cortina editore, Milano 2004, p.100) fino a legare il perdono alla parola «grazie». E sebbene «non sappiamo che cosa dica veramente Jacques Derida quando ci dice perdono e grazie» (L. Odello, Premessa. Spergiuri, in ibid., p.7), sappiamo tuttavia come arriva a dirlo, ossia leggendo «L’imprescriptible» di Vladimir Jankélévitch e, soprattutto, la conferenza «Perdonare? »(ed. it. a cura di D. Vogelmann, Giuntina, Firenze 2004). «Per perdonare», scrive Jankélévitch, «occorre che il carnefice chieda perdono. Vi sono colpe tuttavia, innanzitutto la Shoah, per le quali nessuno ha mai chiesto perdono e che dunque sono imperdonabili».

Se, allora, il perdono non è chiesto, perché e a chi perdonare? A nessuno, e dunque il perdono è impossibile, «morto nei campi della morte» (Derrida, Perdonare, cit., p. 38). Altrove Jankélévitch scrive che «il perdono del peccato è una sfida alla logica penale» e «laddove il perdono eccede la logica penale, esso è estraneo a tutto lo spazio giuridico» (ibid., p. 33). È ancora commentando questo filosofo che Derrida osserva che la parola «perdono» ha senso soltanto se è domandato, «come una grazia domandata, un mercy domandato» (ibid., p. 62). Di più perdono e grazia/grazie, mercy/merci sono due falsi amici che Derrida accosta
anche altrove (J. Derrida, Qu’est-ce qu’une traduction «relevante»?, Herne, Paris 2005), leggendo “Il mercante di Venezia” di Shakespeare. Il passo che attira l’attenzione del filosofo è il discorso di Portia che, invocando per Antonio il perdono (o clemenza, o misericordia, mercy) annuncia: «Il suo trono è nel cuore dei sovrani, è un attributo dello stesso Dio, e al potere di Dio quello terreno si fa simile quando la clemenza mitiga in esso il rigore della legge».

Con ciò il perdono, oltre a dar sapore alla legge, eleva quest’ultima fino al punto in cui si origina. Ecco l’apice fino al quale Derrida si spinge. Ora, è possibile andare oltre e cogliere il perdono altrimenti? Sì, e un altro dramma shakespeariano, misura per misura introduce altro nel perdonare, indicandolo come dismisura che rigenera e rinnova la libertà. A Claudio che dichiara di essere in ceppi «per un eccesso di libertà» (atto I, scena II) e a sua sorella Isabella che chiede al giudice clemenza «perché tutte le anime che sono esistite son state almeno una volta con dannate […] e la clemenza si troverà proferita così come lo spirito dell’uomo primo creato» (atto II, scena II), risponde il Duca rimarcando che al male fatto egli replicherà con il bene, ossia con il perdono.

Non certo con il ripristino dell’equilibrio della giustizia ma con l’eccesso che accade nella risposta eccessiva del bene al male. Risposta eccessiva che attesta la possibilità di non disperare nonostante il male compiuto o subìto, annunciando che la possibilità che il bene riaccada può darsi senza che con ciò la colpa sia cancellata. Eccesso del bene che «perdonare» fa accadere.

Carla CANNULLO
Filosofi a Teoretica
Università di Macerata

Condividilo!