Quella ricchezza dei cereali che si butta via

Per secoli abbiamo cercato di pulire e raffinare tutte le fonti di cibo di origine vegetale affinché fossero il più possibile energetiche e adatte ai processi produttivi a cui erano destinate.
I chicchi dei cereali sono così stati trasformati in farine sempre più candide e fini, raggiungendo una purezza che oggi sappiamo significare impoverimento. Il moderno cibo iperlavorato e iperraffinato non ha fatto altro che ingrassare i corpi. Con l’incedere delle patologie dell’era moderna – obesità, malattie cardiovascolari e neoplasie – l’interesse scientifico ha rivolto sempre di più la propria attenzione verso la ricchezza delle materie prime impiegate un tempo, comprendendo anche quel superfluo.
Diversi studi stanno oggi valutando le potenzialità dei frumenti pigmentati e in particolare di alcune delle loro frazioni più nutrizionalmente interessanti, quelle che il tradizionale processo di molitura dirottava all’alimentazione animale, come la crusca.

Elena Ferrero

L’obiettivo è quello di migliorare la qualità dei prodotti e talvolta creare veri e propri «alimenti funzionali», caratterizzati da attività positive per la salute dell’uomo. Ulteriore obiettivo della ricerca è non limitarsi ad affermare che il prodotto creato «può essere fonte di composti benefici», ma testare quanto effettivamente di queste micro-sostanze rimane nell’organismo umano in seguito alla digestione.
Il processo di digestione enzimatica in vitro ha questo ambizioso obiettivo: simulare in laboratorio il più precisamente possibile tutti i fenomeni che avvengono nel nostro corpo durante la digestione del cibo: dalla produzione di enzimi e sali, ai cambiamenti di pH, alla temperatura, al passaggio graduale del cibo da un compartimento all’altro del tratto gastro-enterico.
In particolare, il processo comprende tre fasi: la fase orale, la fase gastrica e la fase intestinale. I risultati dei – pochi – studi di digestione enzimatica in vitro sui cereali suggeriscono che la quota di antiossidanti rilasciata nell’intestino umano potrebbe essere molto maggiore di quella riportata dai precedenti dati di letteratura, basati solo su semplici estrazioni chimiche.

Elena Ferrero
Università degli Studi di Torino

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